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Nell’esercizio del proprio potere direttivo, il Datore di lavoro può impartire tutte le disposizioni che vengano ritenute utili ai fini della miglior organizzazione, esecuzione e disciplina dell’attività lavorativa.

Tale potere è correlato al dovere di diligenza e di obbedienza dal prestatore di lavoro e trova il suo fondamento normativo nell’articolo 2104 c.c., secondo il quale “Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale.

Deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende”.

Ma vi sono dei limiti all’esercizio di questo potere?

Il dipendente può rifiutarsi unilateralmente di eseguire un ordine del proprio datore di lavoro?

La giurisprudenza si è trovata spesso a rispondere a questi interrogativi e si è soffermata ancora di recente sul tema (ordinanza n. 24118/2018).

La vicenda oggetto di causa riguardava una lavoratrice dipendente che, a fronte dell’assegnazione di nuove mansioni da parte del proprio datore di lavoro, si era rifiutata di svolgerle, lamentando il fatto che esse, a suo dire, esulavano dai compiti propri della qualifica di appartenenza formalizzata al momento dell’assunzione. 

Secondo la ricostruzione della lavoratrice, le mansioni dovevano ritenersi inferiori a quelle della qualifica di assegnazione. In ragione di tale rifiuto, la Società aveva intimato il licenziamento per giusta causa.

I primi due gradi di giudizio avevano accolto la tesi difensiva della lavoratrice, ma la Corte di Cassazione si è discostata dalle precedenti pronunce e ha svolto una serie di rilievi tali da escludere la possibilità per il dipendente di non eseguire un ordine datoriale.

La Suprema Corte ha infatti prima di tutto sottolineato che, anche per i contratti di lavoro, deve ritenersi operante l’art. 1460 c.c., riguardante i contratti con prestazioni corrispettive

La norma appena citata dispone letteralmente che “ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l'altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l'adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto. Tuttavia non può rifiutarsi l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede”.

Come si declina quindi questo principio nell’ambito dei rapporti di lavoro e della condotta del prestatore di lavoro? 

La conseguenza di questo richiamo normativo ha portato la giurisprudenza ad affermare che il dipendente può rifiutarsi di adempiere all’ordine ricevuto e alla sua obbligazione (in questo caso, può legittimamente rifiutarsi di eseguire gli ordini del datore di lavoro) solo se il datore di lavoro stesso sia a sua volta gravemente inadempiente, oppure abbia messo in atto un inadempimento tale da incidere in modo irrimediabile sulle esigenze del lavoratore o da esporlo a responsabilità penale.

Dunque, in altri termini, nelle ipotesi di ordine datoriale abnorme e palesemente illegittimo.

Nel caso in questione, la Corte Suprema non ha ritenuto che fosse integrata una ipotesi del genere.

L’assegnazione a mansioni inferiori avrebbe potuto giustificare il suo rifiuto a lavorare solo se la reazione fosse stata proporzionata alla gravità del comportamento della controparte e conforme alla buona fede.

In casi del genere che strumenti di difesa ha a disposizione il lavoratore?

Nel caso di assegnazione a mansioni ritenute inferiori il dipendente può attivare l’iter giudiziale e domandare che la sua prestazione sia ricondotta nell’ambito della qualifica che ricopre, ma non può rifiutarsi a priori di eseguire l’ordine.

Secondo la giurisprudenza di legittimità infatti, il dipendente è sempre tenuto a osservare le disposizioni del datore di lavoro, così come previsto e sancito a livello normativo proprio dal già citato articolo 2104 c.c.

Il lavoratore deve quindi ottemperare agli ordini che gli vengono impartiti purché, ovviamente, tali ordini non siano “in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, come afferma l’articolo 41 della Costituzione, anch’esso citato dalla Corte Suprema nell’ambito della sentenza che si è appena richiamata.

Questa dunque la conclusione e la risposta al quesito iniziale che la giurisprudenza pressochè consolidata ha fornito nella maggior parte dei casi, fermi restando naturalmente i rimedi attivabili dal dipendente in altre sedi.

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