Come noto e recepito da tempo dalla dottrina e dalla giurisprudenza, è prerogativa del datore di lavoro l’esercizio del potere disciplinare, ossia la facoltà di valutare la condotta dei propri dipendenti e, laddove ricorrano determinate condizioni e presupposti, adottare le conseguenti sanzioni nel rispetto della procedura prevista dallo Statuto dei Lavoratori.
Nel valutare a questi fini il comportamento del dipendente, l’Azienda deve verificare se in concreto esso si sia tradotto in un inadempimento degli obblighi che sussistono in capo allo stesso in ragione del rapporto di lavoro, oltre che la gravità di questa condotta del lavoratore.
Laddove, sia sotto il profilo soggettivo che sotto il profilo oggettivo, la condotta sia così grave da avere leso il rapporto di fiducia che deve necessariamente sussistere tra le parti e in maniera tale da non consentire la prosecuzione, nemmeno temporanea, del rapporto di lavoro, si ritiene integrata la cosiddetta giusta causa di licenziamento.
In questo caso, l’Azienda potrà recedere immediatamente dal rapporto di lavoro, previo il completamento dell’iter disciplinare regolamentato dall’art. 7 Statuto Lavoratori, non dovendo nemmeno corrispondere al dipendente la cosiddetta indennità legata al preavviso.
Tra le fattispecie riconosciute dalla giurisprudenza come integranti una ipotesi di giusta causa di licenziamento, si ritiene debba rientrare, con le puntualizzazioni che seguono, anche la cosiddetta insubordinazione del lavoratore.
Con il termine insubordinazione ci si riferisce usualmente a tutti quei comportamenti del lavoratore che si traducono in condotte chiaramente inadempimenti degli obblighi tipici del rapporto, quali ad esempio, l’abbandono dal posto di lavoro, l’uscita anticipata senza alcun motivo, la mancata osservanza delle disposizioni e delle direttive datoriali.
Le suddette condotte costituiscono infatti pacifica e chiara violazione dell’obbligo di diligenza di cui all’art. 2104 c.c. nonché quello più generale di correttezza nell’esecuzione della prestazione lavorativa.
Si ritengono qualificabili come insubordinazione anche tutti gli atteggiamenti irriguardosi, offensivi e che hanno connotati tali da esulare dall’obbligo formale di correttezza dei modi e dei contenuti, idonei ad arrecare pregiudizio, oltre che all’immagine della Società, anche alla serenità dell’ambiente lavorativo.
In particolare la Corte di Cassazione, con un recente intervento, ha fatto espresso riferimento ad un episodio specifico affermando che il comportamento in questione debba essere qualificato come insubordinazione.
Più nel dettaglio, è stato stabilito che un commento offensivo che il lavoratore indirizzi all’Azienda datrice di lavoro, utilizzando come mezzo di diffusione Facebook, sia idoneo a rappresentare grave insubordinazione e a legittimare la massima sanzione espulsiva.
I Giudici hanno anche sottolineato che questa modalità di diffusione dei contenuti, che può consentire la più ampia circolazione tra i destinatari, incide sulla valutazione della gravità della condotta, perché non si esaurisce in uno scambio avvenuto in un contesto ristretto e privato, quale ad esempio, all’interno di una chat.
Con la sentenza in questione, n. 27939/2021, è stato anche chiarito e meglio specificato il concetto di insubordinazione da intendersi in senso ampio.
Essa dunque non può essere limitata al solo rifiuto del lavoratore di adempiere alle disposizioni dei superiori o di osservare le direttive che vengono imposte (e dunque ancorata, mediante una lettura letterale, alla violazione dell’art. 2104, co.2, c.c.), “ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale” (in questo senso si veda anche Cass. n. 9736/2018).
Quindi per giungere alla corretta definizione e individuazione della nozione di insubordinazione, occorre tenere presente quanto il comportamento del lavoratore sia in grado di incidere sul regolare svolgimento della prestazione, come inserita nell’organizzazione aziendale, oltre che sulla disciplina e sull’ordine che ne costituiscono il fondamento.
Ne consegue dunque che la critica indirizzata verso i propri superiori deve avvenire con forme e toni che rispettino l’obbligo di correttezza e che non abbiano connotati tali da pregiudicare, oltre che la reputazione e l’immagine del Datore di lavoro, anche l’organizzazione aziendale, la serenità del contesto lavorativo e l’efficienza del personale.
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