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La necessità di arginare il rischio di contagi da covid -19 ha portato le Aziende ad individuare rapidamente soluzioni alternative alla prestazione lavorativa in presenza, modalità da sempre prediletta nel panorama lavorativo italiano sino al 2020.

La principale strada percorsa dalla maggior parte delle aziende, ove compatibile, è stata quella di ridurre entro breve termine il numero dei lavoratori operanti fisicamente in sede, applicando la modalità lavorativa del lavoro agile secondo quanto previsto dalla normativa emergenziale introdotta nei mesi del c.d. Lockdown.

Tale soluzione, talvolta adottata secondo logiche di urgenza e di emergenza, senza un’adeguata pianificazione ed un piano organizzativo, ha fatto sì che molti lavoratori si siano trovati all’improvviso a lavorare all’interno della propria abitazione, senza alcun collegamento effettivo, tranne quello meramente strumentale, con gli altri colleghi.

Il mutamento in questione, tuttavia, quale evento imprevisto e non preventivabile, ha determinato in taluni casi la materiale esportazione delle “cattive pratiche” proprie del mobbing, dal luogo fisico di lavoro ai rapporti lavorativi da remoto, facendo si che talune condotte censurabili del datore di lavoro si trasferissero dall’ambiente lavorativo a quello virtuale creato dalla distanza.

Tale fenomeno, di recente diffusione e tuttora in fase di studio, prende il nome di “smart mobbing” e si differenzia dal “mobbing” tradizionale per l’attuazione delle condotte con modalità da remoto.

Il presente contributo si pone dunque l’obiettivo di analizzare, dal punto di vista pratico e normativo, tale fenomeno, al fine di fornire adeguate risposte ad imprenditori, lavoratori ed imprese circa l’approccio a tale criticità:

- Che cosa si intende per mobbing?

- Quali sono gli elementi caratterizzanti di tale condotta?

- In quali casi si può parlare di smart mobbing?

La panoramica sul mobbing.

In linea generale, il mobbing in ambito lavorativo può essere descritto come un insieme di azioni ostili, legate da un intento persecutorio, eseguite nei confronti di un lavoratore, reiterate nel corso del tempo.

Appare doveroso precisare, tuttavia, come non esista una definizione legislativa di mobbing e sul punto, sia la dottrina che la giurisprudenza hanno provato a definire tale fenomeno, delineando i principali aspetti caratteristici di tali condotte.

Secondo una recente definizione della Suprema Corte Cassazione civile sez. lav. - 04/03/2021, n. 6079, con il termine mobbing si designa “un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo”.

Tale descrizione consente senza dubbio di individuare gli elementi fondamentali di tali fattispecie, che possono essere così riassunte:

- atti o comportamenti vessatori adottati in serie;

- continuità e reiterazione delle condotte;

- colleghi o superiori quali soggetti che attuano le predette condotte;

- lavoratore quale soggetto passivo, destinatario della vessazione;

- intento persecutorio ed emarginante;

- obiettivo di esclusione della vittima dal gruppo di lavoro.

In particolare, secondo la costante giurisprudenza, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti i seguenti elementi:

a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;

c) il collegamento causale tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore;

 d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.

L’esistenza di tutti i suddetti elementi costitutivi del fenomeno dovrà essere provata dal lavoratore che invoca la condotta lesiva.

Nello specifico, ai fini della configurabilità di una ipotesi di "mobbing", non è sufficiente accertare l’esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, ma è necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, che ha come obiettivo finale la prevaricazione. 

L’evoluzione digitale del mobbing, il cosiddetto fenomeno dello “Smart Mobbing”.

In linea teorica, la possibilità di svolgere le proprie mansioni dall’abitazione o da un luogo distante dalla postazione lavorativa potrebbe apparire idonea ad assicurare maggiore libertà ai dipendenti, evitando l’insorgenza di conflitti con il Datore di Lavoro.

Nella realtà lavorativa, tuttavia, si è di recente registrata una trasposizione digitale delle condotte precedentemente adottate in presenza, tali da presentare profili persecutori e che vengono definite “smart mobbing”. 

In primo luogo occorre tenere presente appunto il contesto digitale ove si svolge la prestazione lavorativa: rendendo la propria prestazione da remoto i dipendenti sono soli e privi dei consueti punti di riferimento, propri del lavoro in presenza.

Ulteriore elemento idoneo ad amplificare gli effetti di possibili condotte vessatorie potrebbe essere rappresentato dalle modalità comunicative bidimensionali proprie del lavoro agile, mediante l’utilizzo di due sensi: la vista e l’udito. 

Tale limitazione provoca un senso di maggior fatica nello svolgimento dell’attività lavorativa, incrementando al contempo le possibili reazioni negative a condotte ostili da parte dei colleghi o del datore di lavoro.

Ma in che cosa si traduce il fenomeno dello Smart Mobbing?

Le condotte tipiche che possono rientrare in tale categoria e che sono state sino ad ora riscontrate da chi opera a vario livello con la gestione delle risorse umane, sono le seguenti:

- esclusione della partecipazione di un lavoratore dalle c.d. conference call;

- eliminazione di un lavoratore dalle chat aziendali; 

- conferimenti di incarichi monotoni e ripetitivi;

- e-mail o messaggi inviati ai lavoratori a tutte le ore al fine di costringere il dipendente ad essere sempre connessa, peraltro anche in aperta violazione del cosiddetto diritto alla disconnessione che il datore di lavoro deve garantire in pendenza di smart working.

Rispetto a tali condotte, potrebbe rilevarsi ancora più difficile dimostrare la finalità persecutoria, proprio perché le stesse non avvengono in presenza ma mediante l’utilizzo dei dispositivi digitali, il cui mancato funzionamento potrebbe essere addotto come pretesto per giustificare taluni comportamenti.

Non può in ogni caso trascurarsi la responsabilità del datore di lavoro sul quale grava l’obbligo di garantire e tutelare la sicurezza dell’ambiente di lavoro e dei propri dipendenti, in qualunque contesto operativo e nonostante le modalità realizzative.

E tale onere di adempimento è destinato a diventare ancora più stringente considerato il radicarsi della modalità lavorativa da remoto nella realtà attuale, vista la tendenza delle aziende a considerare lo smart working come strumento di flessibilità costante e non come un rimedio di carattere emergenziale, legato alla situazione contingente.

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