Negli ultimi anni il fenomeno del cosiddetto mobbing è stato oggetto a più riprese della attenzione della giurisprudenza e degli operatori del settore, costituendo una fattispecie di sempre maggior diffusione e incremento.
Nello specifico, con il termine mobbing si definiscono tutte quelle condotte vessatorie e persecutorie, ripetute e durature, rivolte nei confronti del lavoratore ad opera di superiori gerarchici o di colleghi, talvolta attuate anche direttamente dall’azienda con il fine non dichiarato ma dimostrabile di ottenere l’estromissione del lavoratore.
In sintesi, vengono dunque ritenute caratteristiche rilevanti del mobbing:
- la sistematica protrazione nel tempo delle condotte vessatorie poste in essere attraverso molteplici atti;
- la volontà che sorregge l’azione e che deve essere diretta alla persecuzione o alla emarginazione del dipendente;
- il pregiudizio che viene arrecato al lavoratore;
- il collegamento causale tra il danno all’integrità psico fisica del dipendente e la condotta del Datore di Lavoro o dei superiori o colleghi del dipendente medesimo.
E' il dipendente, nel momento in cui formula la propria richiesta risarcitoria, a dover provare la lesione della propria condizione di salute fisica e mentale e il nesso di causa tra il danno e lo svolgimento della propria prestazione lavorativa.
Viene ritenuto risarcibile e rilevante anche il danno da straining, che consiste in una forma più attenuata di mobbing attraverso la quale viene lesa l’integrità psico fisica del lavoratore pur mancando il carattere della continuità delle azioni vessatorie.
Si tratta cioè di azioni ostili, limitate nel tempo e prive del carattere della continuità e della sistematicità, comunque tali da provocare nel lavoratore una modificazione in negativo, costante e permanente della situazione lavorativa.
Dalla illegittimità del comportamento del Datore di lavoro, posto in essere in violazione dell’obbligo di adottare le misure necessarie atte a preservare l’integrità fisica e la personalità morale del dipendente, discende l’obbligo della Società di risarcire tutti i danni derivati al lavoratore.
Il mobbing può infatti comportare, per la parte datoriale, numerosi profili di responsabilità giuridica, che si ritengono integrati:
- sia quando l’Azienda pone in essere materialmente le vessazioni, con l’obiettivo specifico di discriminare e danneggiare il mobbizzato;
- sia quando gli atti vengono posti in essere da altri dipendenti e più in generale dai colleghi e vengono tollerati dalla Società che non si attiva per far cessare le condotte illegittime e tutelare la posizione del lavoratore oggetto di mobbing.
Si ritiene infatti che il fondamento della responsabilità della Società per il caso di condotte qualificabili come mobbing o come straining si rinvenga nella disciplina introdotta dall’art. 2087 c.c., oltre che dall’art. 2049 c.c., nonché nel più generale obbligo di dare esecuzione a qualunque rapporto contrattuale in applicazione dei principi di correttezza e buona fede previsti dall’ordinamento.
Sul punto, è di recente intervenuta la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 16534 del 11 giugno 2021, che ha dato delle indicazioni importanti in materia.
In particolare, la pronuncia appena citata è intervenuta a definizione del giudizio promosso da un dipendente di Poste Italiane S.p.a. che aveva chiesto il risarcimento dei danni da questo subiti in conseguenza di una serie di condotte mobbizzanti che sarebbero state in essere dai propri colleghi e superiori gerarchici.
I Giudici di Legittimità, dopo aver richiamato i fondamenti normativi sul tema, hanno negato la fondatezza della domanda del lavoratore, respingendo le richieste da questi avanzate, dando delle indicazioni pratiche di rilevante importanza in questo ambito.
La Suprema Corte ha risposto al seguente interrogativo:
In primo luogo è stato ribadito che la responsabilità del datore di lavoro –gravato dall’attuazione di tutti gli obblighi previsti dall’art. 2049 c.c. – non è esclusa dalla circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente, che sia collocato in posizione di supremazia gerarchica o che sia anche solo collega rispetto alla vittima che promuove l’azione.
Il comportamento del datore di lavoro rilevante in questo caso è l’inerzia colpevole rispetto alla rimozione del fatto lesivo che, si traduce, in altri termini, nella mancata attuazione dell’obbligo di legge di adottare ogni strumento e misura utile a tutela della salute e dell’integrità psico fisica del lavoratore.
Tuttavia nell’ipotesi in cui il Datore di Lavoro non sia stato portato in nessun modo a conoscenza delle presunte condotte persecutorie attuate nei confronti della dipendente perché non informato dei fatti, la sua responsabilità viene esclusa e nessun risarcimento da parte dell'azienda è dovuto in tali casi.
E nella vicenda oggetto di esame da parte della Suprema Corte, era stato escluso, con accertamento in fatto svolto attraverso tutta l’istruttoria di causa, che il datore di lavoro fosse stato messo a conoscenza delle presunte condotte persecutorie nei confronti della dipendente.
Non è stato ritenuto dunque legittimo sanzionare il comportamento della Società rispetto ad episodi, condotte e comportamenti che il Datore di Lavoro ignorava completamente e che, per tale ragione e in maniera chiaramente incolpevole, non poteva far cessare in alcun modo.
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