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In tutte le ipotesi in cui il recesso datoriale, ossia il licenziamento, presenta profili di illegittimità, nullità o comunque errori procedurali e sostanziali tali da inficiare la sua validità, l’ordinamento prevede delle specifiche forme di tutela attivabili da parte del lavoratore e che possono variare a seconda delle dimensioni dell’Azienda, del tipo di vizio e della data di assunzione del lavoratore. 

Le tutele previste dal Legislatore si distinguono, in estrema sintesi e per ciò che rileva in questa sede, in tutela reale o reintegratoria, che prevede la riammissione in servizio del prestatore di lavoro illegittimamente licenziato, e tutela obbligatoria o economica, che ci concretizza nel riconoscimento a favore del lavoratore di un'indennità di natura risarcitoria.

Ci soffermeremo, in questa prima parte della nostra trattazione, ad esaminare le caratteristiche rilevanti della prima forma di tutela citata.

Quando dunque il lavoratore licenziato erroneamente ha diritto ad ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro precedentemente occupato?

Deve essere prima di tutto precisato che la reintegra, ossia il diritto alla cosiddetta tutela reale, spetta solo in ipotesi determinate previste espressamente dalla Legge, che andiamo di seguito a riepilogare sinteticamente.

  1. In tutti i casi in cui il licenziamento venga qualificato come nullo. In tali ipotesi la tutela reintegratoria spetta a prescindere dalla dimensione aziendale e in questi casi il datore  di lavoro è condannato alla reintegrazione del lavoratore, fermo il diritto del dipendente di esercitare il cosiddetto diritto di opzione e di scegliere, invece della riammissione in servizio, una indennità sostitutiva quantificata nella misura di quindici mensilità, fermo l’obbligo per il datore di lavoro di provvedere anche alla ricostruzione della posizione previdenziale. 

Tali casi si sostanziano:

  • nelle ipotesi in cui il licenziamento è intimato verbalmente. Come noto la legge prevede la forma scritta ad substantiam per la validità del recesso datoriale. Questo equivale a dire che il licenziamento deve necessariamente risultare da un atto scritto. Questo requisito formale si intende rispettato non solo nel caso di invio di una raccomandata, modalità che tutela maggiormente il Datore di Lavoro per quanto concerne la prova certa del ricevimento. Secondo recenti aperture della giurisprudenza di legittimità, si ritiene rispettato il requisito della forma scritta, anche nel caso i invio di una comunicazione di posta elettronica semplice, laddove si riesca a fornire dimostrazione del fatto che il dipendente ne ha preso visione e dato lettura (ad esempio, in tutte le ipotesi in cui, abbia inviato una risposta. E’ stato ritenuto sufficiente a questo fine, anche l’invio di messaggio su Whatsapp;

  • nei casi in cui il licenziamento risulta discriminatorio, ossia determinato da orientamento sessuale, razza-origine etnica, credo politico o religioso, o dall’aderenza a un particolare sindacato. È anche discriminatorio il licenziamento attuato contro la dipendente che non sottostà alle avance del capo;

  • in tutte le ipotesi in cui il provvedimento espulsivo viene adottato in violazione espressa di una disposizione di legge che offra particolare tutela alla condizione del lavoratore licenziato. Si pensi ad esempio al licenziamento intimato in ragione della condizione di maternità della lavoratrice. Più nel dettaglio, si ritiene nullo il licenziamento intimato: a) alla lavoratrice madre dall’inizio della gravidanza e sino al compimento di un anno di età del bambino. L’inizio della gestazione si presume avvenuto 300 giorni prima della data presunta del parto indicata nel certificato di gravidanza; b) al padre lavoratore che fruisce del congedo di paternità, per la durata del congedo stesso e fino al compimento di un anno di età del bambino; c) causato dalla domanda o dalla fruizione dell’astensione facoltativa e del congedo per malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore. Fanno eccezione a questa regola di carattere generale, le ipotesi in cui il licenziamento sia stato intimato per ragioni economiche, nel caso ad esempio di chiusura, o tutte le volte in cui il licenziamento si ricollega a ragioni disciplinari o a comportamenti del dipendente che siano stati posti in essere prima o durante la maternità; 

  • nei casi in cui il provvedimento espulsivo viene adottato dal Datore di Lavoro in concomitanza con il matrimonio (ossia tra la richiesta di pubblicazioni e un anno dopo la celebrazione del matrimonio stesso;

  • in tutte le altre ipotesi in cui il licenziamento sia definito nullo dalla legge oppure adottato sulla base di un motivo illecito determinante, ai sensi dell’art. 1345 c.c.. Rientra in tale casistica il provvedimento espulsivo che sia stato adottato dal Datore di Lavoro come ultimo atto di una serie di condotte dequalificanti e dannose per il dipendente che siano qualificabili in termini di mobbing.

  1. In tutti i casi in cui il licenziamento viene intimato per ragioni disciplinari (giusta causa o giustificato motivo soggettivo) oppure per ragioni di carattere economico (cosiddetto giustificato motivo oggettivo) e :

  • il fatto non sussiste: si verifica questa ipotesi quando il dipendente viene licenziato per un comportamento che non è mai stato posto in essere e dunque il lavoratore è stato destinatario di una accusa ingiusta e infondata. Pertanto, nel momento in cui il dipendente impugna il licenziamento, se in giudizio viene dimostrata l’insussistenza del fatto contestato al lavoratore il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore alla reintegra;

  • il licenziamento avviene per giustificato motivo oggettivo (cosiddetto licenziamento economico) e ancora una volta il fatto posto alla base del recesso datoriale è manifestamente insussistente. Anche secondo il recente intervento della Corte Costituzionale, in tutte le ipotesi di insussistenza del fatto contestato al dipendente, vale il medesimo ragionamento del licenziamento disciplinare: il prestatore di lavoro ha diritto alla reintegra. 

Per completezza espositiva occorre ricordare in questa sede anche l’incidenza delle previsioni introdotte dal cosiddetto Jobs Act  (D. Lgs. n. 23/2015), che ha modificato in maniera piuttosto significativa il quadro delle tutele delineato e disciplinato in precedenza dalla cosiddetta Legge Fornero (L. 92/2012). 

Si rammenta a questo proposito che per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 e che hanno prestato attività a favore di aziende che occupano più di 15 dipendenti, la reintegrazione spetta anche nelle ipotesi in cui il Giudice accerta che non esistono gli estremi della giusta causa e del giustificato motivo soggettivo oppure che non ricorre il giustificato motivo oggettivo invocato dalla parte datoriale a sostegno del proprio provvedimento.

Per gli assunti successivamente alla data citata, e dunque in relazione ai lavoratori rispetto ai quali è possibile invocare il cosiddetto contratto a tutele crescenti, il mancato ricorrere di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo non da diritto alla tutela reale ma, come vedremo nella trattazione successiva, solo alla tutela obbligatoria di tipo economico.

Una fattispecie peculiare e ancora dibattuta è quella rappresentata dal cosiddetto licenziamento per superamento del periodo di comporto, intimato in violazione delle previsioni di cui all’art. 2110 c.c. (secondo il quale, al primo e al secondo comma, “In caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio se la legge non stabiliscono forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un'indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dagli usi o secondo equità. Nei casi indicati nel comma precedente, l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’art. 2118 c.c., decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità”.

Per i lavoratori assunti prima del 07 marzo 2015, è prevista l’operatività della tutela reale, ossia il diritto alla reintegra a favore del lavoratore. Per gli assunti successivamente a tale data, resta dibattuto il tema. Gli interpreti e gli operatori tendono a riconoscere a questo vizio la qualifica di nullità per violazione di norma di legge e quindi ad applicare la tutela reale anche in relazione a queste ipotesi. Si attendono nuove e ulteriormente chiarificatrici pronunce su questo tema.

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