Le molestie sessuali sul luogo di lavoro rappresentano purtroppo un fenomeno sociale di rilevante attualità e in costante crescita.
Secondo una recente indagine promossa dall’Istat, sono circa un milione e 400 mila le donne che nel corso della loro vita lavorativa hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro. Rappresentano dunque l'8,9% per cento delle lavoratrici attuali o passate, incluse le donne in cerca di occupazione.
Nei tre anni precedenti all'indagine, ovvero fra il 2013 e il 2016, hanno subito tali episodi oltre 425 mila donne, pari al 2,7% del totale.
Ma come vengono definite, a livello normativo, le molestie sessuali?
Una specifica risposta viene fornita sul punto dal D.lgs 11 aprile 2006, n. 198, c. d. Codice delle Pari Opportunità, il cui art. 26, commi 1 e 2, definisce propriamente:
- Molestie: quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.
- Molestie sessuali: quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.
Il tema delle molestie sessuali sul luogo di lavoro è stato recentemente trattato dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 25977 del 16 novembre 2020, la quale si è soffermata a valutare la possibilità che tale tipo di condotte possa integrare giusta causa di licenziamento.
La vicenda oggetto di esame da parte della Suprema Corte prende l’avvio dal recesso datoriale intimato ad un dipendente di un’Azienda di servizi informatici, con qualifica impiegatizia e mansioni di programmatore junior.
In particolare, a fondamento del provvedimento espulsivo, venivano indicate alcune condotte del lavoratore stesso, consistite nell’aver pronunciato epiteti ingiuriosi ed offensivi nei confronti di una collega, nell’aver posto in essere condotte rilevabili come molestie sessuali indirizzate alla medesima lavoratrice nonché per avere effettuato un accesso non autorizzato sul conto corrente del marito della stessa.
Il dipendente impugnava il licenziamento comminato dall’Azienda ed in esito al primo grado di giudizio, il Tribunale di Bologna, dopo aver accertato la sussistenza degli addebiti e ritenuta proporzionata la sanzione espulsiva, rigettava le domande formulate dal lavoratore.
Il lavoratore dava così corso a tutte le fasi processuali successive, sino a giungere alla impugnazione in sede di legittimità.
A sostegno del ricorso proposto in Cassazione, il dipendente assumeva l’illegittimità del licenziamento intimatogli per insussistenza della giusta causa e per difetto del requisito di proporzionalità, in relazione all’entità dei comportamenti tenuti, al contesto dei rapporti soggettivi che intercorrevano tra lo stesso e la vittima delle presunte molestie nonché alla condotta irreprensibile posta in essere dall'incolpato nel corso di tutto il rapporto di lavoro con la società.
In particolare, la Corte di Cassazione ha ritenuto infondate le ragioni del lavoratore precisando innanzitutto come i concetti di giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare siano ascrivibili alla tipologia delle cd. Clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione:
-di fattori esterni relativi alla coscienza generale;
- di principi richiamati tacitamente dalla stessa disposizione.
Fatta questa premessa di carattere generale, assume rilievo ed incidenza il chiaro disvalore che viene attribuito, nella coscienza comune, alle condotte lesive della serenità dei lavoratori all’interno dell’ambiente di lavoro, con particolare riguardo alle donne che risultano essere destinatarie di comportamenti indesiderati.
Valutati tutti questi elementi la Corte di Cassazione ha considerato corretto il percorso argomentativo svolto dalle precedenti autorità giudiziarie, che hanno dato un contenuto concreto alle clausole generali della giusta causa e della proporzionalità, allineandosi al rispetto degli standards “conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale”.
Peraltro la giurisprudenza di legittimità si era già pronunciata in maniera conforme anche in passato, evidenziando che “Le molestie sessuali sul luogo di lavoro, incidendo sulla salute e la serenità (anche professionale) del lavoratore, comportano l'obbligo di tutela a carico del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c., sicché deve ritenersi legittimo il licenziamento irrogato a dipendente che abbia molestato sessualmente una collega sul luogo di lavoro, a nulla rilevando la mancata previsione della suddetta ipotesi nel codice disciplinare e senza che, in contrario, possa dedursi che il datore di lavoro è controparte di tutti i lavoratori, sia uomini che donne, e non può perciò essere chiamato ad un ruolo protettivo delle seconde nei confronti dei primi, giacché, per un verso, le molestie sessuali possono avere come vittima entrambi i sessi e, per altro verso, il datore di lavoro ha in ogni caso l'obbligo, a norma dell'art. 2087 cit., di adottare i provvedimenti che risultino idonei a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, tra i quali rientra l'eventuale licenziamento dell'autore delle molestie sessuali” (così, Cassazione, 18 settembre 2009, n. 20272).
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