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Il tema del trasferimento, con particolare riferimento alla legittimità dello stesso e alla valutazione della condotta del dipendente, è sempre oggetto di accesi dibattiti e interventi della giurisprudenza.
A tal riguardo si rammenta che il datore di lavoro dispone di ampi margini di discrezionalità nel decidere unilateralmente i trasferimenti individuali dei prestatori di lavoro, nel rispetto di quanto disposto sul punto dall’art. 2103 c.c
Infatti, ai sensi dell’ottavo comma della norma appena richiamata: “Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.


Le ragioni cui la norma fa riferimento devono essere effettive, sussistenti al momento in cui viene adottato il provvedimento di trasferimento ed oggettive, ossia non determinate da semplici valutazioni del datore di lavoro, come, ad esempio, quelle che in realtà hanno finalità di carattere disciplinare.
Talvolta il trasferimento è disciplinato, in relazione alle condizioni di legittimità dello stesso, dalle previsioni della contrattazione collettiva di volta in volta applicata alla fattispecie concreta. 
Se l’ordine datoriale di trasferimento viene emesso nel rispetto delle prescrizioni di legge, il lavoratore non può rifiutarlo: nelle ipotesi di rifiuto non supportato da valide ragioni, la condotta del dipendente può essere valutata come giustificato motivo soggettivo di licenziamento e dunque di natura tale da legittimare la chiusura del rapporto di lavoro.

Diversamente, se il provvedimento datoriale che dispone il trasferimento viene disposto in maniera illegittima, quali sono gli strumenti di tutela messi a disposizione del lavoratore in simili ipotesi? 
Il dipendente può semplicemente rifiutarsi e non dare esecuzione alla richiesta di trasferimento?

In primo luogo il lavoratore ha facoltà di impugnare il provvedimento di trasferimento e può farlo attraverso qualunque tipo di atto scritto, anche extragiudiziale, purchè sia idoneo a rendere inequivocabilmente nota la sua volontà di opporsi al trasferimento, contestandone il fondamento, nel termine di 60 giorni dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento.
Quanto invece alla possibilità di rifiutarsi di adempiere la richiesta di trasferimento, in termini generali si ritiene che, anche nell’ipotesi di provvedimento datoriale adottato contra legem, il lavoratore non possa semplicemente rifiutarsi di svolgere la propria prestazione.
Il trasferimento ad altra sede lavorativa deciso dal datore di lavoro in mancanza di oggettive e dimostrate ragioni tecniche, organizzative e produttive, non comporta pertanto quale conseguenza automatica ed immediata la legittimità del rifiuto del lavoratore di rendere la propria prestazione e dunque di sospendere l’esecuzione dell’attività.
Secondo diversi arresti, anche recenti, della giurisprudenza di legittimità, la valutazione del comportamento del lavoratore che non ottempera al provvedimento di trasferimento illegittimo dovrà essere eseguita alla luce del più generale principio di buona fede nell’esecuzione del contratto e dunque anche del rapporto di lavoro.
Da ultimo la Suprema Corte ha ribadito questo principio con l’ordinanza n. 4404 del 10 febbraio 2022, che ha infatti ricordato che “in tema di trasferimento adottato in violazione dell’art. 2103 c.c., l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell’art. 1460 c.c., comma 2, alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede”. (Cass. 11 maggio 2018, n. 11408; Cass. 1giugno 2018, n. 14138).
In altri termini ciò significa che il prestatore di lavoro non può semplicemente rifiutarsi di svolgere la propria attività ma dovrà, in questa ottica, offrire di adempiere la propria prestazione lavorativa presso la sede originaria, così manifestando concretamente la non contrarietà a buona fede della sua condotta.
E’ stato infatti affermato sul punto che il rifiuto del lavoratore di dare esecuzione all’ordine datoriale di trasferimento illegittimo deve essere accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria, potendosi configurare in mancanza una ipotesi di assenza arbitraria dal lavoro.
Come tale, una comportamento del genere potrebbe essere valutato ai fini disciplinari e portare, in ultima battuta, anche a consentire da parte del datore di lavoro la considerazione di giungere ad adottare la massima sanzione espulsiva. 
Occorre dunque procedere caso per caso all’effettuazione di una disamina comparativa degli opposti inadempimenti, nell’ambito della quale dovrà essere ponderata la condotta del dipendente che ha accompagnato il proprio rifiuto ad una seria e concreta manifestazione di disponibilità a svolgere la propria attività presso la sede originaria.
L’esame non potrà che essere eseguito tenendo conto della fattispecie concreta che costituisce oggetto di esame caso per caso, ponendo a fondamento di tale operazione valutativa l’inadempimento datoriale, da una parte e le modalità attuative del rifiuto del lavoratore dall’altra.

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