La Corte di Cassazione, con sentenza n. 22819/2021, è tornata a pronunciarsi su un tema di sempre grande interesse e rilevanza, ossia il comportamento del dipendente al termine del periodo di malattia, con specifico riferimento al suo rifiuto di rientrare in azienda e di sottoporsi alla visita medica di idoneità preventiva, ai sensi dell’art. 41, comma 2, lettera e-ter), del D.lgs. n. 81/2008 (ossia il noto “Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro”).
Nel caso specifico oggetto della vicenda giudiziaria di cui si è occupata la Suprema Corte, la lavoratrice, alle dipendenze di un operatore ferroviario, era stata sollecitata a presentarsi presso gli uffici aziendali, per essere poi sottoposta, nei giorni successivi, alla visita medica del caso e normativamente prevista.
Il sollecito aziendale avente ad oggetto il rientro seguiva a un periodo di aspettativa di dodici mesi, intervenuto dopo un lungo periodo di malattia.
La lavoratrice aveva rifiutato di adempiere all’invito datoriale di recarsi in azienda e, pertanto, il datore di lavoro, dopo aver formalizzato la contestazione per assenza ingiustificata e aver dato corso al procedimento disciplinare, le aveva intimato il licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
La dipendente aveva avviato così l’iter giudiziario dapprima presso il Tribunale di Roma, poi in Corte d’appello e infine davanti alla Corte di Cassazione, che ha respinto tutte le richieste della dipendente, con la decisione sopra richiamata.
La Suprema Corte ha, prima di tutto, ricordato quanto disposto dall’art. 41, comma 2, lettera e-ter), del Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro, secondo il quale la sorveglianza sanitaria comprende la “visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare l’idoneità alla mansione”.
La visita medica preventiva di cui all’art. 41 del Testo Unico, nelle intenzioni del legislatore, è volta a verificare l’idoneità alle mansioni e dunque, in primis, il ripristino dell’attività lavorativa in generale ma non in correlazione alla mansione specifica.
La Suprema Corte, richiamando altre decisioni di analogo contenuto rispetto ad ipotesi di recesso per giusta causa intimato per inadempimenti analoghi, ha inoltre specificato che “la norma va letta – secondo un’interpretazione conforme tanto alla sua formulazione letterale come alle sue finalità – nel senso che la “ripresa del lavoro” rispetto alla quale la visita medica deve essere “precedente”, è costituita dalla concreta assegnazione del lavoratore, quando egli faccia ritorno in azienda dopo un’assenza per motivi di salute prolungatasi per oltre sessanta giorni, alle medesime mansioni già svolte in precedenza, essendo queste soltanto le mansioni, per le quali sia necessario compiere una verifica di “idoneità” e cioè accertare se il lavoratore possa sostenerle senza pregiudizio o rischio per la sua integrità psico-fisica”.
Pertanto, nell’ipotesi in cui il lavoratore sia destinato alle stesse mansioni svolte prima dell’inizio del periodo di assenza egli può legittimamente rifiutarsi di eseguire la prestazione dovuta, in mancanza di effettuazione della visita medica, posto che tale incombente prescritto dalla norma si colloca all’interno del fondamentale obbligo imprenditoriale di predisporre e attuare le misure necessarie a tutelare l’incolumità e la salute del prestatore di lavoro.
Fermo tutto questo, occorre però tenere ben presente che, dalla predetta ipotesi, va tenuto distinto il differente caso in cui il lavoratore rifiuti preventivamente di presentarsi in azienda.
La Corte di Cassazione ha infatti sottolineato che in ipotesi del genere, venendo a mancare il titolo che giustificava l’assenza (come nel caso di specie in cui la lavoratrice aveva superato il periodo di aspettativa richiesto), non può ritenersi consentito al dipendente di rifiutare di presentarsi sul posto di lavoro.
I Giudici di legittimità hanno del resto precisato che tale richiesta di presentazione è da considerarsi “momento distinto dall’assegnazione alle mansioni, in quanto diretta a ridare concreta operatività al rapporto e ben potendo comunque il datore di lavoro, nell’esercizio dei suoi poteri, disporre, quanto meno in via provvisoria e in attesa dell’espletamento della visita medica e della connessa verifica di idoneità, una diversa collocazione del proprio dipendente all’interno della organizzazione di impresa” (cfr. Cass. 7566/2020).
In altri termini, questo significa che, fermo l’obbligo per il datore di lavoro di tutelare la sicurezza del dipendente e quindi di disporre visita medica nel caso di assenza prolungata oltre il periodo di 60 giorni, il lavoratore non può legittimamente evitare il rientro in azienda e sottrarsi alla presenza, anche ai fini dell’assolvimento di tale obbligo datoriale.
Sulla base di quanto precede, la Corte di Cassazione ha ritenuto ingiustificato il rifiuto della lavoratrice di presentarsi in azienda ed ha quindi confermato la legittimità del licenziamento disciplinare con preavviso.
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