Il tema dell’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori, sul quale abbiamo avuto modo di soffermarci anche in altre occasioni, è stato spesso oggetto di interventi giurisprudenziali, anche rispetto alla problematica del risarcimento del danno, soprattutto non patrimoniale, e della relativa prova.
Questi gli interrogativi che spesso si pongono agli operatori del settore e del diritto.
E’ sufficiente per il lavoratore dimostrare di essere stato destinatario di un comportamento qualificabile come demansionamento per ottenere il ristoro di tutti i pregiudizi correlati?
Il solo comportamento illecito dell’Azienda, in relazione a tale profilo, basta perché il dipendente possa ottenere la liquidazione anche di un danno biologico, esistenziale, alla professionalità o comunque di carattere non patrimoniale?
La Suprema Corte ha ricordato in più occasioni che, in tema di demansionamento e di dequalificazione professionale, il pregiudizio derivato, inteso anche come danno non patrimoniale, non può ritenersi sussistente nelle cose ed essere riconosciuto solo per la dimostrazione in giudizio di un comportamento del datore di lavoro reso in violazione degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro.
In altri termini, non è sufficiente che il lavoratore dimostri che l’Azienda è risultata inadempiente rispetto agli obblighi correlati al rispetto delle mansioni e al legittimo esercizio dello jus variandi, ai sensi dell’art. 2103 c.c.
Infatti, per ciò che attiene al demansionamento e alla dequalificazione professionale, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno anche biologico, esistenziale o comunque non patrimoniale che ne deriva, presuppone ed impone la specifica e puntuale allegazione della condotta demansionante del datore di lavoro, della natura e delle caratteristiche del pregiudizio subito e della sussistenza di un collegamento causale con l’inadempimento datoriale.
La prova di tale danno può anche essere fornita attraverso il ricorso alle cosiddette presunzioni, cioè attraverso la deduzione di una conseguenza non nota da un fatto noto ed acquisito.
Tuttavia gli elementi presuntivi allegati devono essere gravi, precisi e concordanti e devono consentire di valutare la qualità e la quantità della attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa dopo la prospettata dequalificazione, essere dunque ancorati a dati oggettivi che hanno caratterizzato lo svolgimento del rapporto.
Per ottenere la liquidazione del danno il lavoratore non può perciò limitarsi ad invocare circostanze generiche e prive di riferimenti concreti.
I Giudici di legittimità hanno infatti in più occasioni statuito che, ai fini dell’accoglimento della domanda di accertamento del demansionamento e della relativa richiesta risarcitoria di tutti i danni derivati: “non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento, ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale.”
La Suprema Corte, inserendosi in un contesto giurisprudenziale di pronunce sul tema piuttosto articolato, ha, dunque ribadito la necessità di ancorare la richiesta risarcitoria del dipendente relativa al danno non patrimoniale all’assolvimento di un onere della prova piuttosto rigoroso, che, anche laddove ottemperato attraverso presunzioni, deve fare riferimento a circostanze ed elementi di fatto puntuali e precisi, che supportino la richiesta avanzata dal lavoratore in giudizio.
Anche il percorso legato all’assegnazione di differenti mansioni al lavoratore non è privo di ostacoli e di difficoltà, specie nelle ipotesi della degenerazione del rapporto in una fase successiva.
Torneremo sicuramente ad esaminare il tema e tutti gli interrogativi che si prospettano nei nostri prossimi interventi.
I nostri consulenti costruiranno, insieme a te, la soluzione migliore per far crescere la tua azienda.