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Come noto, il contratto di lavoro a tempo determinato è quella particolare tipologia di accordo che, per definizione, ha un termine specifico di durata, fissato dalle parti nel rispetto delle previsioni di legge sul punto.

La principale caratteristica che contraddistingue questa tipologia negoziale, piuttosto diffusa nella prassi, è rappresentata infatti dalla sua durata, che può essere prestabilita in sede di sottoscrizione dell’accordo, in maniera certa e precisa, oppure, in alcuni casi, individuata per relationem, ossia indirettamente, come avviene, ad esempio nell’ipotesi di contratto a termine sottoscritto per la sostituzione di un lavoratore assente, laddove si mette in correlazione la scadenza del contratto stesso con la data di rientro del sostituito.

Questa particolare forma contrattuale trova la sua disciplina specifica e dettagliata nel cosiddetto Decreto Dignità (art. 1, DL 87/2018) che ha modificato la normativa originariamente pensata per la regolamentazione del contratto a termine e contenuta nel D.Lgs. n. 81/2015.

Ci si limita a rammentare in questa sede che è possibile stipulare un contratto a termine per ogni esigenza e per lo svolgimento di qualunque mansione, senza necessità di indicazione di alcuna causale, solo per i contratti di durata fino a 12 mesi.

Nel caso di contratti che superano questo termine di durata ma che in ogni caso non possono superare i 24 mesi, devono sussistere una serie di causali espressamente previste dalla legge, tra le quali:

  • esigenze temporanee e oggettive estranee all’ordinaria attività dell’azienda;

  • sostituzione di altri lavoratori;

  • esigenze legate a incrementi temporanei, rilevanti, non previsti e non programmabili dell’attività ordinaria.

In caso di sottoscrizione di un contratto di durata superiore ai 12 mesi, senza che ricorra alcuna delle causali sopra indicate, il contratto si trasforma a tempo indeterminato a decorrere dalla data di superamento dei 12 mesi.

Salvo diversa disposizione dei vari contratti collettivi, il numero dei lavoratori a termine che può essere assunto deve essere al massimo pari al 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato che risultano in forza al 1 gennaio dell’anno di assunzione.

Ai fini che qui ci occupano, è di interesse interrogarsi sulle conseguenze legate al recesso dal contratto di lavoro, nelle differenti ipotesi di contratto a tempo indeterminato e, appunto, a tempo determinato, partendo dal presupposto che il recesso è un atto unilaterale, cioè proveniente da una solo delle parti, che ha effetto nel momento in cui viene a conoscenza dell’altra parte. 

In caso di contratto a tempo indeterminato, ossia nell’ipotesi individuata dal legislatore come elettiva e preferenziale per la regolamentazione del rapporto di lavoro, vista la mancanza di una data preordinata per la cessazione degli effetti dell’accordo, è sempre concessa la possibilità di un recesso di parte, del datore o del lavoratore.

Le previsioni di legge mirano, in questo caso, a fornire tutela alla parte lavoratrice, introducendo delle modalità formali e sostanziali peculiari di esercizio di questo diritto che sono rappresentate dall’iter del procedimento disciplinare nel caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, o per giusta causa con esonero dal relativo preavviso, e dal ricorrere di precise condizioni di carattere economico o organizzativo nel caso di giustificato motivo oggettivo. 

In riferimento invece all’ipotesi di recesso del lavoratore, il dipendente stesso dovrà premurarsi di preavvisare il datore della volontà di far cessare gli effetti del contratto di lavoro, tenendo conto delle previsioni, quanto alla tempistica necessaria, contenute nel CCNL applicato.

Radicalmente differenti invece le considerazioni nel caso in cui si tratti di un contratto a tempo determinato, proprio perché le parti, nella sottoscrizione dell’atto, si sono reciprocamente impegnate tra loro solo per un certo periodo. 

Quali sono dunque le conseguenze nel caso di recesso anticipato dal contratto a termine? A quali condizioni può essere esercitato?

Il nostro ordinamento, infatti, non prevede la possibilità di un recesso di parte anticipato, ossia ante tempus, rispetto alla data del termine contrattuale; o meglio ne ammette la possibilità solo nell’ipotesi in cui ricorra una giusta causa di recesso, secondo quanto disposto dall’art. 2119 c.c.

Fatta questa premessa, e per sintesi espositiva, si ritiene opportuno evidenziare come possano verificarsi, operativamente, due differenti situazioni nel caso di recesso prima della scadenza, da parte del datore o del lavoratore, ossia:

1. Con sussistenza di giusta causa, e dunque in maniera del tutto legittima

2. Con insussistenza di giusta causa, da cui potrà derivare, da parte di chi riceve e subisce il recesso lo subisce, una richiesta di risarcimento del danno.

Nel caso di recesso ante tempus non assistito da giusta causa, non si rilevano differenze di sorta tra  datore e lavoratore in relazione al profilo di illegittimità dell’atto; ciò che cambia, invece, sono le possibili conseguenze. 

In questa fattispecie, il soggetto che subisce il recesso può agire nei confronti dell’altra parte per una richiesta di risarcimento del danno; in tale caso tuttavia, si è assistito nel tempo al cambiamento delle indicazioni giurisprudenziali relative alla quantificazione del danno subito, differente a seconda che la richiesta sia formulata da parte del lavoratore ovvero del datore di lavoro.

In linea di massima la quantificazione di questo tipo di danno dovrebbe essere operata in via equitativa da parte del Giudice. Detto ciò, nella prassi e nella giurisprudenza consolidata, si è dato per acquisito un principio che orienta gli operatori e gli interpreti nell’individuare una soluzione per il caso del danno richiesto dal lavoratore per recesso datoriale ante tempus, senza giusta causa: il danno viene ordinariamente quantificato nell’ammontare delle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito dalla data del recesso illegittimo fino alla scadenza del termine contrattualmente previsto.

Sono di tipo differenti le valutazioni effettuate per l’ipotesi di recesso anticipato del lavoratore non assistito da giusta causa, ipotesi che, nei fatti, si verifichi con minor frequenza.

In tale caso, il datore di lavoro potrà agire in giudizio con richiesta di risarcimento del danno, ma dovrà dare dimostrazione della sussistenza del danno stesso; cosa questa che non viene richiesta al lavoratore dal momento che la sussistenza del danno, per il suo caso, è implicita nella perdita delle retribuzioni.

Il datore dovrà quindi dimostrare l’effettività di un danno patito (che può consistere ad esempio, nei costi di formazione del lavoratore, oltre ad andare a quantificare, attraverso prove puntuali, il quantum del danno.

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