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Il tema dell'assenza per malattia da parte del dipendente è da sempre foriero di numerose problematiche ed interrogativi per le Aziende, la cui risoluzione può avere anche importanti conseguenze dal punto di vista del rilievo disciplinare della condotta del lavoratore.

In particolare, posto il rispetto delle formalità di legge che consentono di ritenere giustificata l’assenza del prestatore a motivo di uno stato patologico accertato dello stesso, come deve comportarsi il dipendente in pendenza della malattia? Quali sono le condotte esigibili? Può dirsi intimato in maniera legittima il licenziamento se il lavoratore, durante questo periodo di assenza, svolga una attività extra lavorativa anche a titolo gratuito? 

In linea di massima, giurisprudenza e dottrina sono concordi nel ritenere che ha rilevanza disciplinare tale da legittimare anche la massima sanzione espulsiva, la condotta del dipendente che svolga attività assolutamente incompatibili con la patologia dichiarata e accertata, rese con modalità da far dedurre la non veridicità dello stato di malattia oppure effettuate in maniera idonea a pregiudicare concretamente le condizioni di salute già compromesse o rallentare e ritardare il processo di guarigione.

In altri termini, assume rilevanza disciplinare il comportamento del dipendente che, in violazione delle regole di correttezza e buona fede, tenga una condotta preordinata o alla simulazione della malattia o comunque ad impedire e ritardare la guarigione, ossia la tempestiva ripresa della attività lavorativa. 

Sul punto, è di recente intervenuta la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 9474 del 19 aprile 2021, che ha ricordato i principi fondamentali in materia.

La pronuncia appena citata chiude la vicenda giudiziaria che ha visto come protagonisti un lavoratore, nello specifico un operatore ecologico, al quale era stata diagnosticata una patologia depressiva con prognosi di pochi giorni, e l’Azienda presso la quale questi era impiegato, che aveva emesso il provvedimento di licenziamento dato che, in pendenza della malattia, il dipendente aveva svolto quelle che erano state definite “attività ricreative”.

Nello specifico i Giudici di Legittimità avevano richiamato i precedenti giurisprudenziali già intervenuti sull’argomento e avevano così riconosciuto la bontà delle ragioni del lavoratore, con l’occasione richiamando anche le linee guida generali sul tema, individuando una serie di casi che, in ipotesi simili e a differenza di quello esaminato dalla Corte, possono rendere legittimo il licenziamento. 

Ma veniamo alla domanda davvero rilevante.

Quando e a quali condizioni è legittimo il licenziamento del lavoratore in malattia che presti altra attività lavorativa? 

In tema di licenziamento disciplinare del lavoratore in malattia che svolge altre attività, con la sentenza numero 9474 del 19 aprile 2021, poco prima richiamata, la Corte ha affermato un principio dirimente e chiarificatore a riguardo, ossia testualmente: 

“(...) lo svolgimento di attività extralavorativa durante il periodo di assenza per malattia costituisce illecito disciplinare e può essere ritenuto contrattualmente illegittimo per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, quando l’attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua fraudolenta simulazione”.

Ugualmente è stato ritenuto che possa rappresentare valido motivo di recesso dal rapporto di lavoro l’ipotesi in cui l’attività svolta possa pregiudicare o ritardare la guarigione e quindi rallentare la ripresa dell’attività stessa, con intuibile danno correlato per l’Azienda.

In estrema sintesi, ciò che deve essere tenuto presente è che, potenzialmente, lo svolgimento di una qualsiasi attività da parte del lavoratore, anche se non retribuita, durante il periodo di assenza per malattia, possa costituire un illecito disciplinare.

Perchè abbia effettiva rilevanza e possa essere addotta come giusta causa di licenziamento, questa attività deve essere di per sé sufficiente a far dedurre:

Lo stato di malattia che rende giustificata l’assenza dal lavoro non deve essere dunque inteso come stato di impossibilità assoluta a svolgere qualsiasi attività, ma come condizione che impedisce, ostacola e limita l’esecuzione delle normali prestazioni lavorative, ricollegabili al ruolo, al profilo e alla mansione. 

Nel caso concretamente esaminato dalla Corte, non potevano essere ravvisate tali caratteristiche dal momento che lo stato patologico risultava essere effettivo e dimostrato e che l’attività ricreativa svolta dal lavoratore doveva dirsi compatibili con lo stato depressivo, anzi risultando utile al miglioramento delle condizioni del lavoratore stesso. 

Si trattava nello specifico di attività di natura ludica (sostanzialmente passeggiate fuori casa o comunque attività di disimpegno mentale) svolte dal lavoratore sono state infatti ritenute del tutto compatibili con la diagnosi del caso che riportava una patologia di natura neurologica.

Nell’ipotesi esaminata, la Corte di Cassazione ha applicato i principi di carattere generale delineati per arrivare dunque a riconoscere la correttezza del comportamento del lavoratore e dunque l’illegittimità del provvedimento adottato dall’Azienda e affermato che i passatempi di carattere ricreativo possono essere praticati da un lavoratore a cui è stata diagnosticata la depressione senza che questo comporti, appunto, una causa di licenziamento.

Ciò significa detto altrimenti che l’esistenza dei presupposti sopra indicati per la correttezza del licenziamento disciplinare (ossia verosimile simulazione dello stato di malattia e rischio concreto di ritardo nel percorso di guarigione), non può essere affermata a priori ma deve essere valutata caso per caso, tenendo presente tutte le caratteristiche della vicenda prospettata.

 

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